Chiara Montanari, ingegnere, prima donna a capo di una missione antartica, quando vuole riassumere in una parola che cosa siano quei 14 milioni di chilometri quadrati di ghiaccio speso fino a 2.000 metri e di montagne, è “soglia”. Ovvero, «è il punto di passaggio tra il noto, tra quelle che sono le nostre certezze, abitudini, consapevolezze, e l’ignoto. Un mondo altro che non è fatto per l’uomo. La base Concordia, dove ho prestato missione io, si trova in cima alla calotta polare, sta a 4.000 metri di altitudine, sono 4.000 metri di stratificazione di ghiaccio, con una temperatura di meno 50 in estate e meno 80 in inverno. Intorno hai un infinito deserto completamente bianco e privo di punti di riferimento, solo la linea dell’orizzonte che separa il cielo dalla terra, non ci sono odori, non ci sono colori, non ci sono stimoli, nulla si muove.
È il luogo in cui ti rendi conto della presenza dell’assenza. Tutta la nostra conoscenza, quindi le categorie mentali con cui siamo abituati a categorizzare, a organizzare, vanno in crisi e non hanno più senso. Sei come un bambino che si trova di notte in un bosco. È a quel punto che il nostro cervello, il nostro essere, comincia rapidamente a mettere in discussione quel che sa, e riorganizza il pensiero secondo nuove categorie, ci obbliga a reimmergerci in noi stessi e trovare al nostro interno una nuova vitalità. Superare questa soglia, fisica e mentale, è un’esperienza spirituale fortissima. L’Antartide è un luogo di trasformazione». Negli ultimi anni, grazie a mezzi sempre più evoluti (e a un’industria del turismo sempre alla ricerca di nuove frontiere), superare questa soglia non è più solo possibile per ricercatori con decenni di preparazione alle spalle, ma è diventata un’esperienza accessibile agli happy few dei viaggi d’altissimo target che possono vivere l’emozione di sfiorare questo non luogo con i suoi paesaggi incredibili, i suoi silenzi, la sua fauna selvaggia (pinguini, foche, balene, orche) e un mistero che nessuna fotocamera, per quanto evoluta, riesce ancora a catturare.
L’itinerario più classico è quello che, a bordo di navi-rompighiaccio adattate a mezzi da crociera, superano i 1.000 km dello stretto di Drake, che separa Capo Horn (punta estrema del Cile) dalla penisola Antartica e le sue isole. La maggior parte delle crociere in Antartide esplorano questa penisola, unico lembo di terra che si trova parzialmente più a nord dei 66° 33’’ del Circolo polare antartico. Nello stretto fiordo di Neko Harbor si osservano gli enormi blocchi di ghiaccio che si staccano dalla costa tuffandosi in mare, con sullo sfondo enormi colonie di pinguini Papua (o Gentoo).
Altra tappa obbligata è Paradise Harbor, baia famosa per il blu cristallino degli iceberg che navigano nelle placide acque della zona.
A poca distanza si trova Danco Island, con la sua rumorosa popolazione di circa 2.000 coppie di pinguini e le megattere che, alla fine dell’estate, attraversano il canale Errera. La scelta per ora ancora meno battuta è invece quella di una crociera fino al mare di Weddell, un vero e proprio deserto di ghiaccio che si estende a est della penisola Antartica e famoso per gli iceberg dalla cresta piatta, sui quali si scorgono gruppi di pinguini imperatore. Solo un assaggio, certo, rispetto a quello che è il mondo estremo dell’entroterra solitario. Ma senza dubbio un’occasione per vivere, almeno per qualche giorno, il brivido di quella soglia che, come dice Chiara Montanari, «può metterci alla prova con l’ignoto, a ridisegnare la nostra mappa mentale: un avamposto non solo fisico, ma verso una nuova umanità, per fare un salto evolutivo».
testo di Franco Volpi
